Aoratos – “Gods Without Name” (2019)

Artist: Aoratos
Title: Gods Without Name
Label: Debemur Morti Productions
Year: 2019
Genre: Dark Ambient/Black Metal
Country: U.S.A.

Tracklist:
1. “Parallax I”
2. “Holy Mother Of Terror”
3. “Of Harvest, Scythe And Sickle Moon”
4. “Gods Without Name”
5. “Thresher”
6. “The Watcher On The Threshold”
7. “Prayer Of Abjection”
8. “Dread Spirit Of The Place”
9. “Parallax II”

A coloro i quali abbiano bazzicato negli ultimi anni le sonorità trattate su queste pagine non dovrebbe essere sfuggito -o al più suonare nuovo- il nome di Naas Alcameth, ormai ospite a scadenza quantomeno fissa dei lettori in cui girano indisturbate e intriganti le riletture più cupe, occulte e psichicamente intimiste di un lemma, quello del Black Metal, che risulta veicolo da sempre incline per sua stessa natura quando l’obiettivo è scandagliare i più profondi abissi di oscurità di qualsivoglia tipo.

Il logo della band

Aoratos è l’ultima, in ordine temporale ma non qualitativo, delle numerose incarnazioni e relative prove del compositore statunitense – nonché quella che più di qualunque altra (forse perché più vicina all’essere cosiddetta solista) richiama il soggetto di più ampio splendore intessuto su pentagramma dallo stesso: i celebrati Akhlys, le cui volute atmosferiche nero pece hanno meritatamente stregato in seguito alla pubblicazione di “The Dreaming I” nel 2015.
Il parallelo non è casuale o fortuito, perché un breve quanto necessario excursus al fine di contestualizzare la nascita degli Aoratos ci spiega che, proprio da quel momento, e proprio in seno ad una profonda incertezza sul futuro stesso degli Akhlys, sembra essere nata la necessità di continuare l’esplorazione di profondità inconsce verso una più tangibile direzione parallela che ne riprendesse finalmente gli scalpori notturni Dark Ambient, mescolandoli però ad appoggi Drone di scuola industriale per costruzione (sovente intrecciati alla millenaria tradizione di musica rituale orientale) in una serie di strutture e sovrastrutture di passaggio liminale mediante cui i sogni e le visioni originari di ciò che ha preceduto la nuova incarnazione potessero trovare diverso respiro, qualora incanalati in un approccio più fisico e superficiale (in senso di oggetto semiotico-interpretativo) ma non per questo meno orrorifico, inquietante o irradiato di sfumature.
Sarebbe detto ciò sbagliato considerare lo stile degli Aoratos come una semplice, quando non trascurabile, chiave di lettura alternativa o giustapposta al vasto mondo di Alcameth mostrato in quello che ad oggi era stato (e senza discussione resta) il suo impegno più atmosferico, ampio e ricco: s’è senz’altro vero che ogni disco pubblicato da un monicker in cui il nostro è coinvolto sembri essere -ad analisi accurata- un frammento di un dipinto su tela che presenta molto più spessore di quanto non venga scovato a colpo d’occhio, “Gods Without Name” è un’entità a sé stante comprensiva di una ammirevole raffinatezza in dettagli e fosche pitture ancora inutilizzate dal bagaglio espressivo del nostro; solamente, questo risulta decifrabile con un maggiore grado di complicità, o di coltura di spunti d’interesse, qualora accostato -per contrasti o aspetti comuni che vi siano- a “The Dreaming I”. È quindi da subito bene chiarire come ci si trovi per le mani il disco marchiato da Alcameth che più di qualunque altro vive una sua precisa identità a legittimarne l’esistenza anche senza svelature.

La band

Aoratos parte infatti dall’esperienza stilistica Akhlys al fine differente di perscrutare e studiare le reazioni inconsce che si generano dal terrore che luoghi e oggetti conservano nell’inspiegabile essenza della loro manifestazione visiva (per questo più superficiali), nell’incrollabile relazione che, a livello percettivo, l’essere umano possiede con essi: in tal modo le visioni stesse di luoghi fisici, concreti, e di oggetti, specie se abbandonati e decadenti (non più un viaggio onirico sulle ali dell’impalpabile, anche se pur di re-azioni occulte ed esoteriche parliamo), diventano marcatori tangibili di terrore atavico; un’esperienza che chi osserva vive come pregressa nello spirito, perché -parafrasando Lawrence– fluida nel sangue.
Lo scheletro del disco è pertanto, in rilettura d’intenti teoretici, facilmente intelligibile: invocazioni sensoriali dal gusto Dark Ambient che ritroviamo come prezioso sostrato subliminale per tutto il disco, le due “Parallax”, forniscono il giusto gancio di atmosfera (in apertura e chiusura) per l’acidità discorde del cantato di Alcameth (che al solito predilige pitch tendenzialmente rialzati di tono, ma che gestisce qui con precisa varietà d’impiego giungendo ad alcuni dei suoi migliori momenti vocali in assoluto per ispirazione e resa) a conduzione di un assalto freddo, quasi meccanico, dall’accoppiata “Holy Mother Of Terror” -di fatto un prolungamento d’introduzione- e “Of Harvest, Scythe And Sickle Moon” che ben svela l’ossimorico scontro con il calore distante delle mesmerizzazioni Ambient e delle campionature magneticamente ricreate. Ci rendiamo quindi presto conto che i brani dalla loro hanno poca valenza se confrontati all’effetto del loro fluire ininterrotto che li valorizza, circolo virtuoso che dona loro contesto necessario; l’atmosfera si fa pertanto ancora più plumbea e opprimente con conseguente aumento della tensione e dei battiti nella fenomenale title-track, pezzo da novanta che con la sua più immediata approcciabilità melodica (merito di metriche più accessibili e meno invocate) risulta sia il sinistro punto focale dell’album che il momento in cui si inizia a percepire, filtrata dall’asfissiante marasma sonoro, la magniloquenza dei pregevoli sentori sinfonici a rinforzare un sound sempre più complesso e ricco.
La sezione centrale dell’album incrementa l’opprimenza e “Thresher”, disarmonica, isterica e ossessionata, calca ancora di più sulla velocità stridente e dissonante gestita con assoluta maestria mentre gli spiritati, terrificanti sentori sinfonici si accalcano al portale di sovrane melodie chitarristiche impazzite e le ritmiche spingono maggiormente (il batterismo di Menthor sfocia nelle meccaniche stilistiche vicine alla disumanizzazione di scuola Mysticum).
Innegabile che la parte centrale sia quindi un apice d’intensità e violenza calcolata come se ne sentono di rado, nonché quella che più rapisce ai primi ascolti, ma è proprio lo stato di trance a abbandono che parte dal finale in rallentamento di “The Watcher Of The Threshold” -e che fa riprendere fiato con il ritualismo onirico da incubo di “Prayer Of Abjection”– a far raggiungere nella dilatazione della conclusiva “Dread Spirit Of The Place”, se possibile grazie alla sua lentezza prima del gran finale, la pienezza per far quadrare l’intero disco in una discesa necessaria quanto auspicata.

In conclusione, è tutto sommato semplice apprezzare o restare affascinati dalle caratteristiche funzionali di un album come il debutto degli Aoratos. Tuttavia, è solo dopo svariati e attenti ascolti donati con la più giusta propensione e attenzione che questo si mostra pronto a svelare tutto il suo ampio potenziale, in grado sì di generare tensione, apprensione e sentori di terrore già in un primo momento, ma di andare ancora più in profondità con una serie di dettagli cruciali alla lettura se disposti a permetterglielo; perché vi è molto più di quel che possa sembrare.
Pertanto, “Gods Without Name” non rappresenta soltanto un’interessantissima chiave di scorta ad un operato il cui stile diventa, tassello dopo tassello (quando ben tagliati), quantomeno sempre più immediatamente distinguibile; in primo ed incontrovertibile luogo, il debutto a nome Aoratos brilla di una spettrale luce propria che risplende nell’oscurità addensata in cui avvolge l’ascoltatore all’unisono con il risuonare di mantra mortali, particolarmente vivi nel sangue, e preghiere a divinità senza un nome che -faustiane- gli conferiscono quelle inaspettate qualità a farne -stratificate- uno dei più longevi, diretti ma profondi nonché omnicomprensivi e alti traguardi compositivi di chi vi si cela dietro.

Matteo “Theo” Damiani

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